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a cura di Michele Bonuomo e Agnes Kohlmeyer
29.04.1999 — 30.05.1999
a cura di Michele Bonuomo e Agnes Kohlmeyer
29.04.1999 - 30.05.1999Umberto Manzo, già sul finire degli anni ’80, decanta le sue visioni e riduce progressivamente gli schemi formali indirizzando il suo stato espressivo verso criteri di equilibrio formale. Termini come ordine, bellezza, silenzio, contrassegnano i capitoli fondamentali del suo percorso creativo, in cui il mito della classicità si configura come un nodo centrale, quasi per ragioni di carattere antropologico. Manzo, infatti, è nato, cresciuto e vive a Napoli, una città in cui l'ideale antico non è artificio retorico o paludato esercizio culturale, ma una condizione d'essere; è uno stato d'animo permanente e diffuso. In opposizione a un orribile progetto di globalizzazione linguistica, egli appare come artista classico: nei suoi lavori idea e imperturbabile armonia si fondono in azione estetica.
Rettangoli di carta emulsionata o disegni, bloccati in una cornice di ferro, compongono e scompongono l'immagine – il volto o il corpo stesso dell'artista – in un processo di perenne trasformazione in cui l'inserimento di elementi solo apparentemente estranei alla materia pittorica, come pietre, specchi, foglia d'oro, sostanzia l'idea di un presente/passato destinato a durare.
La figura umana che Manzo "mette in opera" diviene misura - in senso stretto - delle sue dichiarazioni espressive. Non è un caso se in questa operazione egli utilizza la proiezione di sé stesso attraverso brandelli fotografici, evanescenti, misteriosi e segreti come sinopie di una rappresentazione che si ricompone ritmicamente agli occhi dello spettatore, Più che con lo specchio di Narciso, affiorano analogie con il Grande Vetro duchampiano. Come nelle scatole ricolme di oggetti mobili e variabili con cui giocavano i bambini in passato, i suoi lavori si infittiscono di elementi (frammenti fotografici, dettagli di disegni, brandelli di vecchie tele, macchie e campiture di colori primari, metalli, scarti, ecc.) bloccati entro uno schema formale: la struttura/architettura in ferro della cornice. Siamo di fronte a una sorta di puzzle infiniti e impossibili, in cui la soluzione del "gioco" non sta nella ricomposizione di un'iconografia precostituita, ma nel ricollocare ogni frammento in una personale memoria segreta.
Per l'occasione venne edito un catalogo con i contributi di Michele Bonuomo e di Agnes Kohlmeyer, curatori della mostra organizzata in collaborazione con lo Studio Trisorio di Napoli.