a cura di Rolf Lauter e Marco Vallora
09.12.2006 — 28.02.2007
a cura di Rolf Lauter e Marco Vallora
09.12.2006 - 28.02.2007Toti Scialoja, nato nel 1914 e scomparso nel 1998, è stato uno dei protagonisti della lunga esperienza astratta in Italia che, sin dall'inizio degli anni '50, rispetto all'enfasi della scuola di New York, si è mantenuta fedele allo spirito della tradizione classica, riservandole un ruolo di assoluta centralità. Ne sono testimonianza lo stretto rapporto e il dibattito vivace e costruttivo instaurato con Afro, Birolli, Melotti, Vedova, nonché la dialettica, dietro le apparenti affinità spirituali, con gli amici americani de Kooning e Motherwell.
Conclusa definitivamente negli anni '60 la stagione delle “impronte”, in una fase immediatamente successiva l'artista si apre a composizioni scandite da partiture rettangolari e inserti definiti da contorni netti, facendo propri gli impulsi astratto-geometrici peculiari dell'epoca. Inizia poi il graduale recupero di un pittoricismo che erompe prepotentemente nelle opere dei primi anni Ottanta, connotate da una singolare libertà e supportate da un più articolato impegno in ambito letterario e poetico.
La Galleria dello Scudo ha ritenuto, dunque, di estremo interesse presentare una mostra dal carattere strettamente scientifico, centrata sulla ricerca astratta di Scialoja tra il 1983 e il 1997, ovvero sugli ultimi due decenni del suo percorso artistico scanditi da importanti appuntamenti espositivi, come la ricca antologica alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma nel 1991, e dalla maturazione di una cifra stilistica fondata su nuovi ritmi compositivi. Con una selezione di trenta opere, la rassegna si è tenuta a Verona dal 9 dicembre 2006 al 24 febbraio 2007, realizzata in collaborazione con la Fondazione Toti Scialoja, nell'ambito di un progetto avviato nel 1999 con l'esposizione dedicata al periodo compreso tra il 1953 e il 1966.
L'indagine è introdotta da una grande tela del 1978, che costituisce il fondamentale elemento di raccordo tra la produzione degli anni '60 e il periodo ora preso in esame. Vi si legge il preludio alla fase successiva: le forme ortogonali, sino ad allora ricorrenti nei lavori dell'artista, perdono nitidezza; i contorni si sfumano, gli impasti si fanno più densi preannunciando il successivo recupero della gestualità.
La mostra si apre con i dipinti Secondo San Isidro e Diario rosso ocra, entrambi del 1983, due dei sei vinilici su tela di canapa esposti l'anno seguente nella sala personale alla XLI Biennale di Venezia. L'uno si ispira al ciclo di Goya La Romería de San Isidro esposto al Museo del Prado a Madrid, a cui Scialoja guarda per il gusto di rappresentare in composizioni maestose una lunga processione dominata da basse tonalità luministiche. Nel secondo appare evidente il deciso rinnovamento nella scelta dei colori: abbandonate le velature, l'artista torna a utilizzare le terre ora sapientemente bilanciate dai grigi. Sempre imperniata su un accentuato sviluppo orizzontale, a suggerire l'idea di un immaginario corteo ancora memore dei teleri di San Isidro, è Vetulonia del 1984 a cui si affiancano, per analogie stilistiche, opere coeve di minore formato come Agno, Butte e Crimea.
Nell'estate del 1985 Scialoja viene invitato a Gibellina, in Sicilia, a tenere un laboratorio di pittura. La luce abbacinante e gli spazi aperti del luogo offrono lo spunto per una serie di quadri - tra essi Senza titolo, Gibellina rosso n. 2 e Rug - in cui affiorano per la prima volta nuove gamme cromatiche, dai celesti chiari agli arancioni, dai rossi in varie gradazioni ai bianchi luminosi. La pennellata si fa più dinamica nella rapidità di stesure ora vorticose, ora spezzate da intrecci improvvisi. Segue Malavoglia (1985), ad anticipare lavori quali Nemo e Marte (1991), improntati a un'assoluta bicromia. Nell'abbandonare equilibrati accordi cromatici Scialoja affronta il dialogo serrato tra il bianco e il nero. Il segno diviene deciso, irrobustito da larghe pennellate e stesure a spruzzo che accentuano il contrasto tra pieni e vuoti.
La Scuola di Atene (1989), il più grande telero mai dipinto dall'artista romano con i suoi cinque metri e mezzo di lunghezza, è il capolavoro di Scialoja sullo scorcio dei due decenni; una sorta di sfida, certo la più impegnativa per gli evidenti problemi realizzativi, e la più audace per la volontà di rapportarsi al celebre affresco eseguito da Raffaello nelle Stanze Vaticane. Una sorprendente felicità creativa sorregge Scialoja nelle tele dell'ultimo periodo. Se con Taraia (1992), realizzato per la XII Quadriennale romana in cui l'artista figura con altri sette lavori, egli giunge all'acme espressiva del nuovo decennio, nel coevo Baccanale emergono i caratteri delle opere cosiddette "ferraresi", accomunate da cromie che di quell'antica scuola serbano memoria. Già in Vermiglio e Tango (1993) affiora la tendenza a coagulare il gesto in un andamento unitario, sino ad addensarsi in nuclei distinti e tuttavia collegati tra loro, come in La riffa (1995). Ma è nel 1996 che l'artista, ormai ottantaduenne, riesce a conferire alla propria pittura uno scarto ulteriore: in Contro lo Stemma e Labirinto il gesto deflagra con violenza disperdendo sulla superficie tracce di un nero opaco e fondo. In altre opere dell'anno successivo egli, invece, contiene l'impeto creativo entro una struttura più nitida, come nel grande quadro che chiude la rassegna, Per W.d.K. 20.3.1997, eseguito alla notizia della scomparsa di de Kooning, l'unico dei compagni d'un tempo, assieme con Motherwell, cui Scialoja è rimasto legato nonostante la distanza.
La rassegna è a cura di Rolf Lauter, Direttore della Städtische Kunsthalle Mannheim, e Marco Vallora, autorevole studioso dell'arte informale italiana. Per l'occasione viene edito da Skira un ricco catalogo con i contributi scientifici dei curatori, volti a evidenziare i tratti peculiari dell'opera di Scialoja anche in rapporto al contesto internazionale. Paolo Mauri ne analizza l'impegno poetico, assolutamente originale per la singolarità delle sperimentazioni metriche e linguistiche, che spaziano dal gusto per il nonsense alla creazione di esametri ispirati alla tradizione italiana. Quindi i testi di Laura Lorenzoni e di Barbara Drudi affrontano, il primo, l'analisi critica dell'epistolario con letterati contemporanei, l'altro, la vicenda biografica negli anni considerati dalla mostra, privilegiando l'approfondimento delle relazioni tra l'autore e i protagonisti della scena artistica d'oltreoceano. Una ricca sezione di apparati comprendente scritti dell'artista e documenti inediti completa il volume.