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22.05.2021 — 31.07.2021
Con il titolo Spazio aperto viene presentata dal 22 maggio 2021 alla Galleria dello Scudo un’esposizione intesa quale luogo di confronto tra aspetti diversi della ricerca astratta in Italia nel secondo dopoguerra. Alcune tra le opere esposte sono state selezionate in quanto singolare rimeditazione sul concetto di “luogo” e “spazio”, dimostrando come la morfologia di contesti analizzati nelle loro componenti visive possa divenire fonte inesauribile di ispirazione.
La mostra è introdotta da Afro e Renato Birolli, personalità al centro del dibattito tra astrattismo e realismo, confluito sin dai primi anni ’50 nell’esperienza del Gruppo degli Otto. I due artisti, cui si affianca Giuseppe Santomaso, sono stati tra i più fervidi fautori della graduale svolta della ricerca pittorica verso una completa non-figuratività, pur mantenendo nei titoli precisi riferimenti oggettuali. Lo spunto iniziale, desunto dall’esperienza, appare rielaborato in modo così radicale da farne perdere il rimando, rendendo superfluo, se non addirittura fuorviante, lo stimolo a rintracciarne lo spunto iniziale. Di Afro vengono ora esposti due grandi disegni, che precedono l’esecuzione delle tele che ne riprendono fedelmente la struttura compositiva.
È, tuttavia, Birolli a meglio interpretare l’idea di “spazio” come origine di un immaginario pittorico. Dai primi anni ’50 le sue opere sono sempre più ispirate a visioni del paesaggio italiano, in parte legate alla costa ligure dove egli ama rifugiarsi, come Manarola: scompare dunque la figura umana mentre la natura diventa protagonista assoluta. “Al ‘veder naturale’ oppongo il ‘sognar naturale’. L’indebolimento di larghi settori dell’arte contemporanea è dovuto alla mancanza della capacità di ‘visione’”, afferma Birolli nel 1954.
Incendio nelle Cinque Terre (1957) può considerarsi tra le tele più significative del ciclo dedicato alle “Cinque Terre”, iniziato già nell’estate del 1955, durante un soggiorno a Manarola. “Da tre giorni galoppano grandi incendi su questi monti arsi, da Monte Rosso a Rio Maggiore. La notte è piena di vulcani ciclopici e il giorno di immense fumate mitiche…. Le Cinque Terre pullulano di paurose fumate. Mi fanno impressione. Ho messo da parte tutto il lavoro iniziato e attacco una tela grande sugli incendi nelle Cinque Terre. Finalmente un grande contrasto di rossi, di verdi; di neri, bruni e rossi; di neri-viola e rossi oppure di rosso, rosso e viola” (lettera di Birolli a Cavellini, 23 agosto 1955).
Tra il 1958 e il 1959, l’artista inizia ad associare alle opere suggestivi titoli musicali: “non per un’idea strettamente musicale ho dipinto le grandi tele dei Canti fiamminghi, ad Anversa e a Milano, nei due inverni del ’57 e ’58… Per sfuggire alla trappola della natura, bisogna che anch’essa sia intesa quale un termine di realtà, anzi, come l’ambiente ideale e disinteressato, nonché necessario, entro cui si determina ogni sviluppo della realtà medesima: fisica e morale, ossia concreta. Soltanto la realtà concreta è generatrice di vaste e continue condizioni. Ma solo la realtà morale riguarda tutte le arti, anche la più astratta, ch’è la musica.”
Ricerca del vero canto (1958), uno dei capolavori di questa stagione, dopo l’esposizione nella personale da Catherine Viviano a New York, insieme a Incendio nelle Cinque Terre (1957) entrerà nella collezione di Stanley J. Seeger Jr. di Princeton. Scelta poi per la sala interamente dedicata all’artista alla XXX Biennale di Venezia del 1960, figurerà nella mostra della collezione Seeger tenutasi l’anno seguente all’Art Museum of Princeton University di Princeton.
I rapporti tra Afro, Birolli e Toti Scialoja sono in questo periodo di stretta collaborazione, rinsaldati dai soggiorni estivi trascorsi a Procida, dove convergono artisti americani come de Kooning, Rothko, Twombly. Nel settembre 1957 Birolli vi trascorre una settimana. Nella tarda estate del 1957 Scialoja elabora le sue prima Impronte, precedute da una serie di dipinti di grandi dimensioni concepiti di ritorno dal suo viaggio a New York. La tela Strappo appartiene a questo ciclo di lavori, in cui predomina l’uso di trasparenze da cui lentamente affiora il colore come dalla profondità della superficie.
Nel grande formato orizzontale si leggono le tangenze e le distanze dei canoni dell’espressionismo astratto. Scialoja rifugge ancora l’all-over destinato a prefigurarsi nelle esperienze di poco successive, mantenendo al campo della pagina una dialettica fra pieni e vuoti. Nella drastica riduzione del registro cromatico, l’artista prefigura le radicali scelte del 1960-61, facendo convivere con acuta sensibilità gli accordi tonali ereditati dalla lezione di Morandi. “Cerco di ricostruire grumi, forse, non ‘forme’: addensamenti, punti di confluenza, gangli, sigilli d’ombra, nell’ombra, centri di luce, l’ansia di un articolarsi vivente per qualcosa che non potrà definirsi mai. Incontri con me stesso: nodi, urti forse, tenuti insieme da una persistenza che è amore, una sorgente che ricominci sempre a sgorgare, il ribattere di una stessa nota”; così scrive Scialoja nel suo Giornale di pittura.
La centralità del gesto che in Scialoja si fa ora violento, imperniato su timbri cromatici in netto distacco dal sapiente accordo tonale che governa la composizione, riemerge anche nell’opera di un altro protagonista della scena italiana, Giuseppe Santomaso.
L’evoluzione dell’astrazione lirica verso un’idea personale di “espressionismo astratto” si misura nella sua ricerca già alla fine degli anni ’50, e più compiutamente nei primi ’60, quando alle stesure a corpo tipiche, per esempio, del ciclo dei “Cantieri”, frutto di stratificazioni, fanno seguito anche altri interventi con spruzzi di colore e colature. I due viaggi in Puglia condotti nel 1960 in compagnia di Werner Haftmann, a cui sono riconducibili suggestioni poi confluite in dipinti come Verso Matera o Paese, offrono l’impulso per la stesura di ideali “diari di viaggio”, nati da forti tensioni emotive. “Dalle immagini della memoria e da quelle cristallizzazioni formali nasce nel pittore […] un flusso pieno di immagini, un dialogo pieno di tensioni, di attimo in attimo” (W. Haftmann, 1964).
Se la memoria di un luogo reale o immaginario percorre l’opera di Santomaso ponendo in relazione “l’anima” delle forme con “l’anima” dei colori, in Emilio Vedova assume valenze ben precise. Dopo le serie ispirate a luoghi da lui stesso visitati, come Dal diario del Brasile o i cicli Per la Spagna concepiti questi ultimi con ben precise finalità di denuncia politica, negli anni ’70 è l’America ad animare il repertorio espressivo dell’artista, il Paese che nel secondo dopoguerra raccogliere l’eredità lasciata dall’Europa come epicentro dell’arte contemporanea, ma anche il luogo delle contraddizioni e delle disparità sociali, che l’artista sente il dovere di denunciare, per dimostrare di non essere testimone inerte di soprusi considerati inaccettabili.
De America, pertanto, è il titolo di una serie di dipinti del 1976 di grande formato, cui si affiancheranno l’anno seguente tele di minori dimensioni, che offrono allo spettatore una lettura del tutto personale del mondo d’oltreoceano, carico di tensioni e di contrasti visti, non a caso, attraverso una tavolozza in bianco e nero.