Home / Esposizioni / Nunzio, pentagramma. Opere su carta 2005-2011
10.12.2011 — 31.03.2012
La dialettica fra scultura e piano che sovrasta, affianca o sostiene l’opera contraddistingue il linguaggio di Nunzio sin dagli esordi. Le installazioni dei primi anni ‘80, realizzate in gesso dipinto per immersione, sono concepite per essere collocate a parete in quanto sculture che "negano la forza di gravità pur non nascondendo la sostanza fisica”, come afferma Giuliano Briganti nel catalogo della personale all’Attico, a Roma nel 1984.
Se già allora la scelta dei materiali risponde all’intenzione di assegnare ai volumi precise valenze cromatiche e luministiche, la predilezione per una tridimensionalità schiacciata di matrice donatelliana nonché l’uso del colore, finalizzato a segnare un nuovo approccio nel superamento del tradizionale rapporto con la pittura, ritornano costantemente anche in epoca successiva. Sono del 1986 i primi interventi su legno con cera, pece, carbone, pigmenti o piombo: una nuova ricerca che giunge a piena maturazione nei lavori presentati alla XLII Biennale di Venezia nella sezione Aperto 86, quando Nunzio vince il Premio 2000 quale migliore artista giovane.
Dopo di allora numerose sono le tappe di un percorso segnato dall’esigenza di sperimentare tecniche diverse: del legno l’artista rinnega l’intrinseca piacevolezza, conferendogli con la combustione una profonda colorazione nera; sceglie il piombo per la sua duttilità e per la peculiare caratteristica di assorbire e riflettere la luce; dei metalli predilige le ossidazioni, testimonianza di un vissuto che ne viola la purezza e la perfezione primigenia.
Nell’ambito di un itinerario che lungo i decenni si conferma alquanto variegato per la ricchezza delle soluzioni, il disegno non viene mai concepito come studio preliminare o collaterale alla scultura. Al contrario, nel linguaggio di Nunzio questa forma di espressione riveste sempre un ruolo del tutto autonomo e comprimario rispetto alla sua tradizionale indagine sui materiali. In passato si contano solo due mostre dedicate esclusivamente all’opera su carta. La prima, la personale Confini tenutasi nel 1991 alla Galleria dell’Oca a Roma, accompagnata in catalogo da un testo di Ersi Sotiropoulos, con lavori in cui sagome dai contorni nitidi si alternano con altre evanescenti, campite ora a carbone ora con interventi a pastello. La seconda, itinerante negli Istituti Italiani di Cultura a Los Angeles, San Francisco e Vancouver tra aprile e ottobre 2006, un’articolata esposizione in cui la dimensione fuori scala di fogli dai diversi formati, talvolta accostati in modo inusuale, origina singolari effetti di illusione ottica, come se i larghi tracciati neri possano dilatarsi e proseguire oltre i limiti del supporto cartaceo.
Da un progetto interamente rivolto all’opera su carta nasce la mostra che la Galleria dello Scudo torna a dedicare all’artista, a sei anni di distanza dalla personale Ombre allestita nell’inverno 2005-2006, a cura di Lea Vergine e accompagnata in catalogo da un’intervista di Hans Ulrich Obrist. L'esposizione, inaugurata il 10 dicembre 2011, riunisce opere di recente esecuzione in cui, per la prima volta, l'artista stravolge la concezione tradizionale del disegno: se prima è stato spesso considerato come alternativo alla scultura, ora ne diviene parte integrante.
A segnare l’intento di tracciare una linea di continuità tra le esperienze di quel periodo e gli esiti più recenti, alcuni disegni su carta giapponese del 2005 sono scelti a introdurre la mostra. Segue Trabeazione (2006), il lavoro di quasi tre metri di lunghezza, già presente nella rassegna itinerante negli Stati Uniti, in cui l’artista ripartisce la composizione in una fitta tassellatura. Le scansioni ortogonali addensate nella parte superiore della composizione riprendono la struttura tipica delle pedane lignee su cui Nunzio ancora oggi dispone le sue installazioni in legno combusto. La griglia non si attiene a una prevedibile scansione ortogonale ma sembra a scivolare verso il basso, generando un senso di straniamento dovuto all’equilibrio in apparenza precario del disegno, enfatizzato dall’irregolarità dei margini inferiori dei fogli.
Si giunge quindi agli esiti più recenti, che sul piano stilistico testimoniano un’evoluzione rispetto al passato, azzerando il ricorso allo sfumato e alla linea curva, definendo con maggiore nitidezza i contorni delle sagome che così si mostrano sul foglio in tutta la loro potenza. I corpi geometrici denunciano un processo di sintesi formale imperniato sulla dilatazione e sull’addensarsi delle campiture. L’immagine messa a nudo, sintetizzata in segmenti più compatti, assume ora una pregnante valenza architettonica destinata ad alterare la percezione dello spazio.
Superfici oblique, fughe prospettiche destinate a sfondare idealmente le pareti, ci introducono in una dimensione imperniata su sequenze di piani orientati verso un luogo indefinito. Alcune opere sono concepite come forme tridimensionali pronte a svilupparsi nello spazio, a ribadire l’intento di azzerare qualsiasi distanza fra scultura e superficie bidimensionale. Imprimere un segno sulla carta, definire una campitura o realizzare un oggetto possono quindi coincidere in un’azione comune in cui si annulla ogni rapporto di alterità. In questo gioco di contrapposizioni l’intervento grafico si trasforma in volume in grado di sfondare pareti o di protendersi oltre il piano della parete.
Vera protagonista della mostra è dunque la carta, pregiata e di spessore consistente, prediletta da Nunzio per le particolari valenze tonali e per l’intrinseca piacevolezza alla vista e al tatto. Nel suo disporsi sulle pareti dello spazio espositivo, dà corpo a una sequenza di spartiti monocromi, talora interrotti da volumi estroflessi, da cui prende vita una sinfonia accordata su accenti imperiosi. Grandi fogli bianchi accolgono il carbone e lo assorbono quasi a inglobarlo nella loro stessa fibra, partecipi entrambi di una comune origine naturale: dal legno bruciato deriva il carbone, così come dal legno trae origine la carta. Larghe campiture di un nero profondo si aprono come finestre su un oscuro inconoscibile, come costante metafora delle forti contrapposizioni (luce-ombra, bianco-nero, giorno-notte) su cui si fonda la ricerca dell’artista.