14.12.2024 — 29.03.2025
Prima mostra alla Galleria Spatia a Bolzano nel 1981 presentato da Gabriella Drudi; poi, a Roma, la collettiva alla Galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani nel 1982, quindi la personale Undici sculture all’Attico di Fabio Sargentini nel gennaio 1984. Interprete di una ricerca sullo spazio aperta a contaminazioni con la pittura nelle immersioni tra grigi, neri, rossi e azzurri, Nunzio svela un’identità aperta a molteplici relazioni tra materiali e memoria.
Con la mostra di Nunzio, Sargentini riapre lo spazio espositivo in via del Paradiso 41, dopo la chiusura nel 1978. L’Attico, galleria entrata a pieno titolo nella storia delle avanguardie per le iniziative legate al mondo del concettuale e della performance, torna a riproporsi come punto di riferimento per tendenze più attuali, accogliendo esponenti di punta dell’ultima generazione di artisti.
L’esposizione alla Galleria dello Scudo a Verona dal 14 dicembre 2024 al 29 marzo 2025 si concentra sul primo decennio del lavoro dell’artista con una selezione di quindici opere degli anni ottanta dalla collezione di Fabio Sargentini. Da un lato lo scultore considerato tra i giovani più promettenti, dall’altro il gallerista che gli dedica tre personali, nel 1984, 1986 e 1988.
Le opere documentano una fase creativa di grande fermento, apprezzata non solo in ambito nazionale: Ateliers nel 1984, a cura di Achille Bonito Oliva, con gli studi aperti degli artisti attivi nell’ex Pastificio Cerere nel quartiere San Lorenzo a Roma; le personali da Annina Nosei a New York nel 1985 e 1987; l’invito nel 1986 alla VI Biennale di Sydney e alla XLII Biennale di Venezia nella sezione Aperto ’86 dove vince il Premio 2000 come miglior giovane artista; la presenza in rassegne a Parigi, Chicago, Berlino, San Paolo del Brasile, Istanbul, solo per citarne alcune. Tutto ciò testimonia di un percorso espositivo che lo conferma, nell’arco del decennio, tra le personalità più originali nel panorama artistico italiano.
Spleen (1980), Conca (1982) e Granito (1983) sono alcune opere in gesso dipinto esposte nel 1984 nella personale all’Attico, ora a Verona alla Galleria dello Scudo. “Sembravano cortecce d’alberi giganteschi, gusci di grandi testuggini marine trovati su di una spiaggia deserta, corrosi dal vento e dalla salsedine, scudi di popoli primitivi ricavati da un tronco concavo, sigari di un colosso, rilievi e plastici di isole sconosciute oppure, molto più semplicemente, frammenti di qualche vecchia costruzione distrutta”. Scriveva allora Giuliano Briganti, sottolineando anche altri aspetti delle opere di Nunzio, che “negano la forza di gravità pur non nascondendo la sostanza fisica della scultura” e “negano la bidimensionalità della pittura stessa nell’illusione che offrono di un sovrapporsi, nel tempo, di strati di colore trasparente”.
Secondo Gabriella Drudi già in occasione della sua prima personale nel 1981, dalla sua scultura affiora “acqua da sottosuolo, umorale, organica, essudazione più densa della pietra e più opaca, contenuta e lambente stesura di fieli bigi, non speculare, notturna, donde emerge sospesa la figura del luogo”.
Tra il 1985 e il 1986 il linguaggio cambia in base ai nuovi materiali: nero fumo, pece, cera con lievi e improvvisi segni colorati su tronchi, travi e assi di legno trasformati da sega e scalpello; lamine di piombo sagomate in geometrie essenziali.
Talismano (1985): un supporto ligneo segnato con il carbone, su cui è fissato un elemento cuneiforme in piombo. Il legno diviene fondale, pronto ad accogliere una forma luminosa che modifica la composizione. Il piombo rimanda “a processi alchemici che fondano anche un’ulteriore distanza dell’opera, una sorta di lontananza assimilata all’arcaicità stratificata del materiale ligneo”, afferma Bonito Oliva nel catalogo della mostra da Sargentini tra febbraio e marzo 1986, quando la scultura viene proposta per la prima volta al pubblico.
Nella personale del 1986 figura anche Meteora: doppia natura di una forma dalla verticalità suggerita dal taglio e, insieme, dal senso di una caduta verso un elemento orizzontale, per conferire stabiltà e profondità alla scultura. Tutto si fonde nell’esaltazione trasfigurata del legno, negli interventi cromatici del nero della pece e del rosso del pigmento.
Nei lavori a partire dal 1987 Nunzio introduce un gioco di simmetrie, di proporzioni e armonie, in forme semplici e lineari. Il legno, ora, è come “snaturato”, spogliato del suo originario riferimento all’albero, ricondotto a rigorosa misura mentale. L’Aperto, tra le opere di maggior rilievo concepite per la personale nell’inverno 1987 alla Galleria Civica di Modena, “dal titolo forse rilkiano”, è tra gli esempi più eloquenti di quell’avventura figurale fortemente ritmica, con “scarti d’ombra, tragitti a direzione di strapiombo” come osserva Gabriella Drudi, destinata a connotare da allora il linguaggio dell’artista.
Bruciate dalla fiamma, la tessitura del legno di rovere e le sue venature si fondono in un’unica entità traslucida. Nascono grandi sculture che creano un impatto di forte sensibilità visiva. Da segnalare in questa esposizione veronese due opere del 1988: Ferro nero blu e Canna, quest’ultima caratterizzata dal piombo, materiale al quale Nunzio sa conferire una luminosa consistenza e una definizione rigorosa di contorni. Chiude il percorso Tentazione (1989), una presenza avvolgente in cui gli elementi in legno combusto creano singolari effetti di trasparenza per l’alternanza con gli spazi attraversati dalla luce.
Come afferma l’artista in due interviste di quegli anni, “la scultura, come la vedo io, parte dall’emozione e filtra sempre il dato naturale. L’emozione viene dall’aria, dalla montagna, dal mare, dalla roccia. Un sentimento imparagonabile. Ciò che residua, tuttavia, si può visualizzare, tramutare in forma.” “Sono uno scultore che vive di spazio. Non lo considero come un'idea astratta, ma come un elemento nel quale gli oggetti si muovono e si dispongono. Il mio desiderio è sempre stato quello di fare muovere lo spazio, ossia di modificare la percezione che è possibile averne. Di qui la mia volontà di dare rilievo alla forma, di farla avanzare, perché venga stabilita con quest'ultima una relazione fisica. Una relazione tanto più complessa in quanto non faccio né pittura, né scultura in senso stretto, spesso infatti non è possibile girare intorno alle mie opere. Sono sospese al muro, tra soffitto e pavimento, tra la parete verticale e colui che guarda. Come se le opere si imponessero allo spazio. In tal modo lo spettatore viene disorientato nella sua visione”.
Per l’occasione la Galleria dello Scudo pubblica un catalogo in italiano e inglese con testi di Elena Abbiatici e Claudio Spadoni, e con un’intervista a Fabio Sargentini. Le fotografie di Agostino Osio - Alto Piano documentano le opere esposte.