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a cura di Enrico Mascelloni
15.12.2018 — 30.03.2019
a cura di Enrico Mascelloni
15.12.2018 - 30.03.2019La rassegna, a cura di Enrico Mascelloni, con una selezione di oltre venti sculture di grandi e medie dimensioni scelte tra le più significative del periodo, realizzate in terracotta o in grès, propone un percorso scandito dalle tematiche che connotano la ricerca di quegli anni, oggetto di costante interesse da parte della critica più autorevole sia italiana che straniera. Le opere, eseguite tra il 1958 e il 1968, dopo la personale alla Galleria La Tartaruga a Roma nel 1957, quando ancora prevale un naturalismo di ascendenza informale in cui si individuano tuttavia le premesse della svolta successiva, vantano un curriculum espositivo di prim’ordine, segnato dalla loro presenza in varie edizioni della Biennale di Venezia, in numerose rassegne allestite in importanti musei di tutta Europa, comprese le iniziative dedicate alla scultura italiana promosse da Palma Bucarelli.
Nato a Spoleto nel 1915 e trasferitosi a Roma già negli anni ‘30, sin dal decennio successivo e ancor più nei ’50, Leoncillo viene segnalato come uno dei protagonisti della ricerca plastica del Novecento. Nel 1947 Alberto Moravia lo presenta nel catalogo della Prima Mostra del Fronte Nuovo delle Arti alla Galleria della Spiga a Milano. Roberto Longhi lo considera il più grande talento della sua epoca, tant’è che nel 1954 firma il testo di presentazione in catalogo per la sala personale alla XXVII Biennale di Venezia e cura la monografia uscita per De Luca. Cesare Brandi lo pone ai vertici della ritrattistica novecentesca considerandolo, nell’ultima fase della sua vicenda artistica, alla pari di un maestro indiscusso dell’avanguardia italiana quale Lucio Fontana.
Questa mostra alla Galleria dello Scudo traccia un itinerario che muove dalla personale di Leoncillo a Roma nel 1958 alla Galleria L’Attico di Bruno Sargentini, cui si deve la monografia con testi di Giulio Carlo Argan e Maurizio Calvesi edita nel 1960. È questo un anno cruciale per l’artista, invitato con undici opere alla XXX Biennale di Venezia. Segue, due anni dopo, la sua presenza nella rassegna Sculture nella città a Spoleto, teatro di un imponente allestimento che mette in scena lavori di maestri internazionali, da Alexander Calder a Henri Moore, da David Smith a Fritz Wotruba.
Nel 1965 le due esposizioni alla Galleria Odyssia di Federico Quadrani, prima a Roma e poi a New York, contribuiscono a introdurre lo scultore in collezioni americane. Del 1967 è l’invito a partecipare, con una gigantesca installazione in terracotta, all’impegnativo progetto per il padiglione italiano all’Expo di Montreal. Dopo aver esposto alla Modern Art Agency, tempio di Lucio Amelio in una Napoli in pieno fermento, Leoncillo fa la sua ultima apparizione alla XXXIV Biennale di Venezia del 1968 con una selezione di sculture di grande formato, alcune delle quali ora proposte, quali Vento rosso (1958), Racconto di notte I (1961), San Sebastiano II (1962), Racconto rosso (1963), Amanti antichi (1965).
Dopo la sua improvvisa scomparsa avvenuta nel settembre 1968, Giovanni Carandente è l’artefice della prima retrospettiva, allestita a Spoleto nei Chiostri di San Nicolò nel 1969. Seguono l’ampia rassegna alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma nel 1979 e l’antologica a cura di Giuseppe Appella ospitata nei suggestivi spazi delle Chiese Rupestri e del Circolo La Scaletta a Matera nel 2002. Contemporaneamente, lavori di Leoncillo sono riproposti in varie occasioni, molte delle quali volute da Fabio Sargentini, erede del padre Bruno nella promozione dell’opera dell’artista.
Il percorso della mostra documenta le tematiche affrontate dall’artista nell’ultimo decennio. Ad aprirlo è Vento rosso del 1958, un lavoro che esemplifica uno dei soggetti centrali nel linguaggio dell’artista: la scultura orizzontale. La materia è come sommossa da un terremoto, tende alla condizione dell’orizzontale assoluta. È l’avvio di un fronte di sperimentazioni successive sondate da personalità quali Pino Pascali, Jannis Kounellis, Carl Andre, Richard Long.
Nelle Sculture con gocce rosse del 1958-1959, ai limiti del passaggio dal cosiddetto ultimo naturalismo al suo ripudio, il sangue che sembra parafrasato dalle colature di smalto a ricoprire la terracotta ha tutta l’oggettualità e la distanza raggelata di una materia innaturale. Dopo di allora, tornano ossessivamente forme che gli sono sempre appartenute. I due San Sebastiano, bianco e nero, l’uno del 1960 e l’altro del 1962, riprendono il titolo di una delle più note ceramiche del 1939. Qui la materia è piagata, agitata da un modellato nervoso e incessante; non a caso viene fatto esplicito rimando nel titolo alla figura del santo che per tradizione è sottoposta a lenta e silente agonia, non finita dalla cesura netta e finale di un gesto brutale.
Il Taglio rosso del 1963 offre all'impatto visivo una superfice quasi spianata, in ovvia polarità con il magma incandescente all’interno che il colpo di stecco ha sviscerato, abbattendovisi come una sentenza. Il taglio investe gran parte dell’opera e diviene sovrano, distratto da null’altro che dalla propria incombenza.
Lo slancio verso l’alto, l’enfasi della “verticalità assoluta” che riduce talvolta la larghezza dell’opera al minimo statico indispensabile, si esprime in lavori del 1962 come San Sebastiano I e II e Affinità patetiche ora al Museo Carandente di Spoleto. Agente provocatore della tensione verso l’alto delle forme è il taglio, ora aperto in uno “spacco” lungo e profondo, che assume per l’artista precise valenze semantiche. È ben diverso da quello che in Taglio bianco del 1959 si sviluppa lungo l’intera larghezza abbattendosi come una ghigliottina sulle due facce della scultura.
Nei bassorilievi Racconto di notte I, 1961 e Racconto rosso, 1963 il taglio assume un tale andamento ritmico da rendere intellegibile e insieme pulsionale l'idea stessa di racconto. In Tempo ferito II, 1963 la forma potente e stagliata, che rimanda alla Crocifissione, è rivestita da irregolari mattoni di terracotta che costringono lungo l’intero asse centrale una materia convulsa e radicale. In Amanti antichi del 1965 la sagoma è direttamente prelevata dal Sarcofago degli Sposi etrusco conservato a Roma al Museo Nazionale di Villa Giulia. Gli sposi si trasformano in amanti, dunque l'opera si fa metafora ancora più intensa dell'amore e della morte.
Per l’occasione viene edito da Skira un ricco volume introdotto dal saggio del curatore Enrico Mascelloni, che analizza la ricerca dell’artista inquadrandola in un ampio contesto denso di riferimenti. Segue l’indagine elaborata da Martina Corgnati sulle fonti arcaiche e classiche che hanno ispirato l’immaginario dello scultore, stabilendo collegamenti diretti con la statuaria etrusca, greco-romana e medievale. Quindi, Marco Tonelli affronta una rilettura critica del Piccolo diario redatto da Leoncillo tra il 1957 e il 1964, oggetto di una pubblicazione separata in cui il documento è riprodotto per la prima volta in copia anastatica. Le opere esposte sono illustrate dalle fotografie di Agostino Osio e corredate da schede critiche con una puntuale ricostruzione della vicenda espositiva e bibliografica.