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a cura di Fabrizio D'Amico
27.04.2001 — 15.06.2001
a cura di Fabrizio D'Amico
27.04.2001 - 15.06.2001Ferro, acqua, vetro, nero di carbone e cera sono gli elementi scelti da Gregorio Botta per comporre un nucleo di opere riunite dal 27 aprile 2001 alla Galleria dello Scudo nella mostra personale organizzata in collaborazione con la Galleria Il Segno di Roma.
Nel testo in catalogo, Fabrizio D’Amico pone in evidenza le componenti di un linguaggio che verte costantemente sull’ossimoro fra segno e sogno, fra negritudine e luce, tra la leggerezza del pensiero che sonda l’immagine e l’ottusa pesantezza della materia che la presenta al mondo. La “necessità di contenere l’immagine in uno spazio delimitato, di forte concentrazione semantica e visiva; e di porre uno iato nel tempo accelerato dell’opera e della sua ultima epifania”, il crescente “bisogno di pausa e di silenzio che una lunga (e antagonista) riflessione sulla pittura di gesto, e dunque di immediato coinvolgimento emozionale con il proprio fare, andava nel frattempo temprando”, sono all’origine di una ricerca che tende a una costante riflessione sulla complessità della percezione.
“Avvisi, in tal senso, sono forse il recupero d’un segnare parco ma determinato la materia; e, attraverso quel segno, il giungere a ‘comporre’ l’opera più compiutamente, riducendone l’alea dell’imprevisto, e conducendola a un sol passo da quella forma tetragona a tutto quanto non sgorghi dalla propria fonda intenzione di venire al mondo per sempre intoccabile e diversa dalla flagranza dell’esistere. E avvisi, ancora, sono quelle forme archetipiche (il cerchio, il calice...) nelle quali torna a raccogliersi l’immagine, come cercando in esse un punto di lento affioramento di una verità sommersa, che riguarda il nostro essere più che il nostro apparire.
Cosi dunque […] appare, ora, il mondo di forme di Gregorio Botta: silenzioso e cauto nello svelarsi; ovattato da quel biancore che ravvolge, come se abitasse, e prendesse nutrimento, dall’amnio
di un grembo; lento a confessarsi a chi guarda, con quel suo chiedere, sommessamente, uno sguardo lungo sopra di sé.
Uno sguardo che scopra, alla fine, l’incanto: e non se ne spaventi.”
(Fabrizio D’Amico)