a cura di Lóránd Hegyi e Demetrio Paparoni
11.12.2004 — 27.02.2005
a cura di Lóránd Hegyi e Demetrio Paparoni
11.12.2004 - 27.02.2005Dopo il successo ottenuto con Nobu at Elba, l'installazione di straordinarie dimensioni presentata nel febbraio 2004 nelle Scuderie di Villa Menafoglio Litta Panza a Biumo Superiore vicino a Varese, Giovanni Frangi, artista milanese nato nel 1959, tra i più affermati di questa generazione, è tornato ad esporre a Verona alla Galleria dello Scudo con una serie di dipinti scaturiti dall'urgenza di rapportarsi con la natura in un modo del tutto nuovo, segnando così una ulteriore evoluzione nella sua ricerca. La mostra si è tenuta dall'11 dicembre al 27 febbraio 2005, quattro anni dopo Viaggio in Italia, il progetto che chiaramente denunciava quanto già allora fosse primaria la necessità di cercare nella pittura l'altrove del reale.
Nobu at Elba, quattro tele per complessivi quaranta metri e un gruppo di sculture in gommapiuma bruciata, ha rappresentato una svolta fondamentale nel percorso di Frangi, introducendo motivi inediti all'interno di un repertorio costantemente rinnovato sul piano tematico e stilistico. Gli interventi plastici con materiali inusuali - la gommapiuma per l'appunto - da porre in stretta relazione con il contesto pittorico, l'adozione di equilibri tonali all'interno di un linguaggio fortemente imperniato sulla gestualità, la variazione continua della luce in tempi ravvicinati da un massimo di intensità al buio totale, sono solo alcuni degli elementi che testimoniano lo svolgimento di un lavoro che è approdato a esiti senz'altro più audaci e di forte impatto emotivo.
Per la mostra veronese l'artista ha realizzato venti dipinti su tela di uguale altezza (circa due metri) ma di diversa larghezza e dieci su carta identici tra loro, in cui l'orizzonte sparisce e la visione dall'alto di un mondo senza cielo e i piani sono resi attraverso una partitura materica che altro non è se non scansione musicale. Questa rimeditata e inattesa relazione con il paesaggio - pianure, laghi, fiumi, crinali di montagne, i soggetti insomma consueti - ha chiamato ancora una volta il visitatore a un'immersione nella natura, con un coinvolgimento però radicalmente diverso. L'identità di formato contribuisce inoltre a rafforzare il senso di unicità della rappresentazione che l'intero ciclo di opere vuole costruire.
In apertura della mostra, una veduta del Lochness, dal timbro cromatico costruito sull'alternanza dei grigi e dei neri, ha preparato lo spettatore al passaggio da una visione frontale, dai nitidi connotati naturalistici, all'improvviso colpo d'occhio che dall'alto, in questi recentissimi dipinti, rimescola tra loro le forme per poi ordinarle secondo una costruzione inaspettata. È il caso delle quattro istantanee di Belforte scattate in stretta sequenza, in cui la campagna dell'Appennino si risolve in episodi di pura pittura, dove la sintesi è ormai inequivocabile sinonimo di astrazione; e ancora, delle due versioni di Gstaad, articolate in partiture che individuano le masse secondo un andamento verticale, il tutto immerso in un magma di colore dal quale affiora il lirismo di uno spirito nordico.
La rassegna è curata da Lóránd Hegyi, direttore del Musée d'Art Moderne di Saint-Etienne, e da Demetrio Paparoni, docente di Storia dell'arte contemporanea alla Facoltà di Architettura dell'Università di Catania. Il catalogo edito per l'occasione reca i loro interventi, centrati rispettivamente sulla reinterpretazione della natura, che la scelta di un punto di vista del tutto nuovo consente in molteplici impreviste coniugazioni, e sul rapporto segno-colore-luce che così fortemente connota la struttura di un impianto pittorico pur sempre legato alla tradizione moderna, dove la gestualità è comunque governata da precise regole grammaticali. Claudio Abate, autore delle fotografie che illustrano il volume, interpreta la realizzazione del progetto nello studio dell'artista.