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a cura di Lóránd Hegyi
12.12.2009 — 30.04.2010
a cura di Lóránd Hegyi
12.12.2009 - 30.04.2010La riflessione sullo spazio e sulla possibilità di stabilire un dialogo inedito tra pittura e scultura è stata negli ultimi anni al centro di alcuni interventi monumentali di Gianni Dessì, in cui il senso di straniamento generato dalle proporzioni apparentemente inconciliabili tra materia e ambiente apre nuove prospettive di immaginazione. Ne sono mirabile esempio la gigantesca installazione nella rassegna dedicata al gruppo di San Lorenzo all'Académie de France in Villa Medici a Roma nel 2006, dove la figura di un Atlante accovacciato creava un effetto di inattesa compressione all'interno dello spazio, e l'articolata presenza nella mostra Italia contemporanea - Officina San Lorenzo tenutasi al MART di Rovereto nell'estate del 2009, in cui la pittura offriva singolari effetti di sdoppiamento, mediante forme geometriche che dall'opera plastica sembravano trasmigrare sulla parete di fondo.
Con l'esposizione personale allestita alla Galleria dello Scudo a Verona dal 12 dicembre 2009 al 27 marzo 2010, Dessì torna ad affrontare questo tema, elaborando un progetto che assume precise valenze filosofiche, nell'elaborare in termini metaforici una personale idea dell'esperienza artistica. La rassegna si suddivide in due nuclei principali di opere, realizzati espressamente per l'occasione: le grandi sculture dislocate in varie sale come parti di un unico intervento, cui si affiancano lavori di minori dimensioni funzionali alla completezza dell'intero progetto espositivo.
Apre il percorso un autoritratto in bronzo, una fusione a cera persa in cui l'artista si raffigura nell'atto di soffiare verso l'alto. Il suo respiro si materializza in una piccola sfera, leggera, luminosa, quasi impalpabile, che contrasta con la natura rude, greve e scura del metallo, poiché il gioco della creazione si racchiude in un gesto semplice, persino banale; è l'élan vital con cui l'artista dà forma al pensiero, nel suo tendere alla perfezione.
Si entra quindi nelle tre sale successive, ognuna parte di un unico contesto definito dall'artista col termine Confini. Nella prima colpiscono, per le dimensioni inaspettatamente gigantesche, due piedi sovrapposti, realizzati mediante strutture metalliche rivestite da impasti in fibra di agave e resina. Come le altre grandi sculture della mostra, hanno corpi bianchi, chiaroscurati da cavità e da tracce di lavorazione che l'artista non ha inteso cancellare. La materia è sfilacciata, ma non per un ritardo informale, ma per un desiderio di essenzialità. Sulla parete un grande cerchio dipinto alla sommità definisce il vertice di una piramide a sezione triangolare, all'interno della quale è serrata l'intera composizione, quasi a suggerire l'idea che nel percorso di conoscenza non si può prescindere dall'esperienza del reale e quindi dallo stare con i piedi a terra.
Si accede quindi alla sezione centrale della rassegna: la "camera picta", la stanza interamente dipinta di rosso, percorsa da lunghe linee ellissoidali di colore bianco che imprimono una vertiginosa circolarità alle pareti. È il luogo del vedere, dove lo spazio viene ridisegnato secondo un duplice punto di vista, uno interno alla stanza, l'altro esterno ad essa, secondo un rovesciamento di prospettive che offre allo spettatore una singolare pluralità di visioni. Rappresenta idealmente la testa, animata all'interno della sua "scatola" dalla vitalità dei pensieri. Per l'artista questa "camera picta" rappresenta la ripresa di un genere affrontato sin dagli anni '80, nel quale, con approccio scenografico, la pittura si pone in stretta relazione con lo spazio deformandolo e ridefinendone le prospettive interne.
Segue l'impatto straniante con una mano gigantesca, pronta a disegnare un punto sul pavimento: guidata dalla mente, essa è dunque il mezzo attraverso il quale si attua la creazione artistica. Mani, piedi, e testa, quest'ultima vista nella sua funzione precipua del vedere, sono dunque i tre confini corporei attraverso i quali l'uomo giunge a dare forma al pensiero.
Nella stanza successiva Piccolo piccolo, una grande figura di bambino alta sino a lambire il soffitto, fa capolino, solitaria in un angolo, quasi a schernirsi sorpresa nell'atto di voltarsi verso chi guarda; è l'unica scultura di tutta la mostra ad apparire come presenza umana nella sua totale interezza.
Passati attraverso lo stupore ingenuo tipico dell'infanzia, peculiare di un approccio verso il mondo intuitivo più che razionale, si giunge al lavoro vero e proprio, articolato in una serie di opere tridimensionali, a terra o a parete, ora finalmente a dimensione umana: Intreccio (2007), raffigurante un uomo e una donna avvinghiati l'uno all'altra, alcuni bassorilievi in bronzo appesi tutt'intono alla stanza e, infine, Trama a vista (2009), un busto in cera di colore rosso acceso, con gli occhi mascherati da un reticolo metallico. È l'invito velato al visitatore a dispiegare e distendere la propria rete interpretativa, rete che di fatto traspare nell'ammasso indistinto di fili di agave e resina di cui si compongono le sculture: è dunque questo intreccio a sostenere le immagini, affidando ad esse un corpo realizzato tutto in un fiato.