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a cura di Fabrizio D'Amico e Veit Loers
18.12.2002 — 21.02.2003
a cura di Fabrizio D'Amico e Veit Loers
18.12.2002 - 21.02.2003Le sculture realizzate con materiali di recupero nel ‘61, le performances alla Tartaruga e all’Attico a Roma tra il ‘67 e il ‘71, l’antiretorico Insieme di opere in relazione spazio-temporale tra loro nella sala personale alla Biennale di Venezia del ‘72, Pensare il pensiero e Rifarsi da Iolas a Milano nel ‘73, due azioni per sublimare l’invisibile energia della mente e l’atto creativo, nonché le contemporanee sperimentazioni con il video e la fotografia evidenziano le molteplici direzioni verso le quali si indirizzano i primi vent’anni di ricerca di Eliseo Mattiacci. Ma è dal 1982 che l’artista si orienta decisamente verso una rappresentazione in cui la dialettica tra spazio e cosmo diviene predominante, conquistando un’astrazione nuova, un’idea “aerea, celeste”, come la definì Giuliano Briganti, sintesi “di equilibri, di pesi, di gravità, di spazi”, con un suo modo del tutto particolare di sottrarre peso alla materia.
La spazialità cosmica è il grande tema affrontato da Mattiacci, a lungo cercato, interpretato, continuamente esaminato, con sempre nuove elaborazioni, come ha dimostrato l’imponente mostra ai Mercati di Traiano a Roma nell’estate del 2001. Questa costante è alla base anche dei lavori scelti per la personale allestita dal 19 dicembre 2002 al 22 febbraio 2003 alla Galleria dello Scudo a Verona. Alcune sculture di grandi dimensioni sono state inoltre collocate nel giardino del Museo di Castelvecchio.
Capta spazio è il titolo delle strutture presentate per la prima volta al pubblico in occasione di questa mostra veronese. Sono moduli nati, ciascuno, dall’abbraccio di due binari d’acciaio culminanti, all’estremità, nella rotondità di una piccola sfera, dislocati casualmente, in incerto equilibrio, su un pavimento lastricato di piombo, quasi a voler calamitare impulsi provenienti dall’ambiente circostante. “Strane forme sono, archetipiche e fanciullesche assieme, fossili e giocose, terribili e gentili: ancore, forse, rubate a un segreto fondale marino; o scheletri di ragni giganteschi, abitatori di altri pianeti”, come scrive Fabrizio D’Amico nel suo testo in catalogo. Una proliferazione di forme che guardano il cielo, “quasi attendessero il fulmine, per catturarne e domarne la tremenda energia”.
Le opere di Mattiacci trasmettono con rigorosa semplicità, con evidenza e immediatezza, il suo messaggio formale: il senso qualitativo di un equilibrio di forze che consente sorprendenti risultati di staticità o di magica sospensione. Lo evidenziano alcuni lavori che scandiscono il percorso della rassegna, come Equilibrio (2001-2002), un gigantesco disco di ferro retto in posizione verticale da un potente magnete che ricrea l’immagine aurorale delle geometrie più antiche, e Collisione, di qualche anno precedente, una sorta di gong o di astro sospeso trapassato da una lunga ed esile lancia filiforme, quella stessa che, in Centrare il bersaglio (2002), colpisce il disco nel mezzo, a sottolineare emblematicamente l’attenzione dell’artista per quella forma pura.
In un’intera sala, La mia idea del cosmo, installazione concepita nel 2001, appare come un universo siderale dove emergono, da una miriade di atomi, misteriose forme planetarie: alcune sfere d’alluminio posano sopra un pavimento di piombo, a sua volta rivestito da un fitto tappeto di pallini anch’essi di piombo. L’energia, che sottende a quest’apparente immobilismo, nasce dall’instabilità capricciosa della materia che porta gli elementi dell’universo a disporsi in addensamenti e rarefazioni secondo un movimento perenne di forme variabili e in procinto di fissarsi. È un insieme casuale, non organizzato; è la metamorfosi di prodotti industriali insignificanti nella poesia di un cielo puntinato di mutevoli costellazioni. L’installazione ha una lontana radice nell’immaginario di Mattiacci, non distinta da quella matrice diurna e notturna che è alla base di altri suoi lavori. In sintonia, quindi, sono la Porta del Sole e la Porta della Luna, ideate nel ‘93 ed entrambe ora presentate in una recentissima versione. Con esse l’artista intende ribadire come ogni suo processo creativo si compia entro le coordinate del giorno e della notte, in un’incessante metamorfosi che parimenti dissolve nel graduale mutamento una stagione nell’altra.
In tale contesto viene riproposto il Carro solare del Montefeltro (1986), imprescindibile punto di riferimento per interpretare il dialogo di Mattiacci con il passato. La grande installazione deve il suo equilibrio formale e l’aspetto innovativo alla capacità mnemonica rigenerativa esercitata dall’artista, è il dichiarato rimando alla composizione pierfrancescana dell’allegoria trionfale retrostante il ritratto del duca Federico da Montefeltro. Su un binario di travi in ferro, poggia, appena tangente, un carro con due grandi corpi discoidali, uniti da un asse che seguita incurvandosi verso l’alto, a sostegno di un terzo disco più piccolo.
La rassegna è curata da Veit Loers, direttore dello Städtisches Museum Abteiberg di Mönchengladbach, e da Fabrizio D’Amico, autore di numerosi e fondamentali contributi dedicati alla ricerca di Mattiacci. Il catalogo edito per l’occasione reca i loro interventi, centrati sui significati delle opere in mostra, ed è corredato da un testo di Daniela Lancioni con approfondimenti bio-bibliografici. Claudio Abate, autore delle fotografie che illustrano il volume, interpreta i lavori esposti in una loro continua interazione con l’artista e con l’ambiente.